venerdì 30 novembre 2012

Racconto di Natale

Testo di Rosanna, II B

C'era una volta, in un paese lontano, una famiglia di contadini molto povera, composta da una mamma , un papà e due bambini di sette e cinque anni. Il Natale era quasi arrivato e fuori il freddo era pungente , tutta la prateria era ricoperta di una neve fitta e candida. Intorno si vedevano le case addobbate con luci e colori mentre la casa della famiglia povera era spenta e senza decorazioni . A causa della troppa neve, Samuel, il papà dei due bambini, non era riuscito ad andare in paese a vendere i suoi ortaggi ed in cuor suo si rattristava perché sapeva che senza soldi non avrebbe potuto neanche comprare l'albero da addobbare e far felici i suoi due bimbi. Una notte, mentre tutti dormivano, Samuel venne svegliato dalle grida di un uomo. Si alzò dal letto, indossò il pesante cappotto, prese un bastone ed uscì a vedere cosa fosse successo. Appena fuori vide nella neve una carrozza ribaltata e dentro di essa vi erano rimasti incastrati un uomo e sua moglie. Samuel accorse ad aiutarli e dopo averli liberati li condusse in casa sua. Accese il fuoco per far scaldare i due ospiti infreddoliti e con quel  poco che aveva nella dispensa preparò loro una zuppa calda. Il giorno successivo riparò la loro carrozza ed i due signori, pieni di gratitudine, poterono ripartire. Dopo qualche giorno a Samuel arrivò un pacco postale da parte dei due signori che aveva aiutato. Quando lo aprì vide che era pieno di denaro e sul pacco lesse che i due signori erano un conte ed una contessa. Colmo di gioia, Samuel corse a comprare tante cose buone da mangiare, dei regali per i suoi figli ed un meraviglioso albero pieno di luci e palline colorate. Così, il giorno di Natale, anche quella famiglia cosi povera poté festeggiare dignitosamente la nascita di Nostro Signore. 

lunedì 19 novembre 2012

Ulisse e Polifemo... dal punto di vista di Polifemo


TESTO 1
Di Alessio, II B

Quel giorno mi trovavo nei campi a pascolare il mio gregge. Era il tardo pomeriggio di una calda giornata estiva; mi trovavo su un prato verde ricco d’erba, a ridosso di una falesia che dava sul mare agitato e blu come il cielo. Una leggera brezza marina soffiava da occidente e rendeva più fresca la giornata. Come era mia abitudine, al tramonto radunai il mio gregge per tornare nella grotta. Lungo il cammino trovai un enorme albero di quercia abbattuto da un fulmine di Zeus, così decisi spezzarlo e di utilizzarlo per cuocere del cibo. Appena arrivato misi la legna a terra e chiusi la grotta con il macigno. Cominciai a mungere pecore e capre per bere il latte durante la cena. Quando accesi il fuoco vidi degli uomini e chiesi loro chi fossero. Uno di loro mi disse che erano Achei e mi chiese i doni degli ospiti. Ma io risposi che non mi importava niente degli Dei e dell’ospitalità. Volevo distruggere le loro navi così non sarebbero potuti scappare, perciò chiesi loro dove e avessero ormeggiate. Mi dissero che Poseidone, mio padre, con una tempesta distrusse la navi contro gli scogli. Allora io, infuriato, presi due uomini e li uccisi sbattendoli al suolo, sparpagliando il loro cervello ovunque; successivamente li mangiai e bevvi purissimo latte. Mi misi a dormire.
Il mattino seguente mangiai altri due uomini, portai a pascolare le pecore e le capre e chiusi con il macigno l’entrata, in modo che gli uomini non potessero uscire. Appena tornato divorai altri due compagni e l’uomo coraggioso mi offrì del buonissimo vino. Gli chiesi il nome. Mi disse di chiamarsi Nessuno e come dono d’ospitalità gli promisi che lo avrei mangiato per ultimo e andai a dormire. Nessuno era un uomo alto e abbastanza robusto, con capelli neri e faccia ovale. Era completamente sporco e indossava solo un vestito che copriva petto e ginocchia. Era leggermente scuro di carnagione.
Mentre dormivo sentii un forte dolore e bruciore al mio occhio e di colpo mi svegliai, presi il tronco, lo scaraventai lontano e chiamai aiuto dicendo che Nessuno mi uccideva. Allora gli altri ciclopi, che erano giunti in mio soccorso, dissero che se nessuno mi dava fastidio o mi uccideva, era certamente Zeus che  mi mandava dolori e loro non avrebbero potuto fare niente. Così se ne andarono. Allora feci uscire le pecore e le toccai per sentire se passavano gli uomini di Nessuno per ucciderli. Per ultimo sentii il mio ariete più grande e gli chiesi perché fosse ultimo poiché, di solito, era sempre il primo; poi capii che era triste per il mio occhio e lo feci passare. Nessuno e gli uomini erano spariti e non li trovai mai più.

Da Alessio

TESTO 2

Da Syria, II B

Quel giorno mi trovavo nei campi a pascolare il mio gregge. Era il tardo pomeriggio di una calda giornata estiva; mi trovavo su un prato verde ricco di erba, a ridosso di una falesia che dava sul mare agitato e blu come il cielo. Una leggera brezza marina soffiava da occidente e rendeva più fresca la giornata. Come era mia abitudine, al tramonto radunai il mio gregge per tornare nella grotta. Lungo il cammino trovai un enorme albero di quercia abbattuto da un fulmine di Zeus, così decisi di spezzarlo in più parti e di utilizzarlo quella sera per cuocere del cibo. 
Mi incamminai lungo il sentiero, dove c’erano arbusti e rami di ogni tipo, con la legna in mano mi diressi verso la mia spelonca. Buttai a terra la legna e feci entrare il gregge nei recinti. Lo guardai per poi mungerlo. Chiusi con il grosso macigno l’entrata della spelonca e nel silenzio percepii dei rumori; mi girai a guardare con il mio grande occhio, indispettito ed irritato mi resi conto che c’erano degli intrusi. Irritato e furibondo mi rivolsi a loro con impeto ed ira chiedendo chi fossero e da dove venissero e che cosa facessero nella mia dimora. Li guardai tutti e vidi che tremavano dalla paura, ma solo uno di loro ebbe l’ardire di rivolgermi la parola. Era un uomo basso, robusto e muscoloso, aveva il volto ricoperto da una fitta barba, ma gli occhi erano vispi ed astuti come quelli di una volpe che guarda e studia la sua preda. Indossava una veste corta. Il resto del corpo era ricoperto da salsedine che al chiaror del fuoco lo rendeva lucente. Al braccio portava un bracciale che lo distingueva dagli altri. Mi disse che venivano dal mare, che erano stati portati su quell’isola dalla corrente dei venti contro la loro volontà, ma per volere degli Dei e chiedevano ospitalità. Vedendomi irritato inveì contro di me dicendomi di portare rispetto agli Dei, e io, con ira e rabbia, gli feci notare di non aver alcuna intenzione di ascoltarlo e che addirittura gli Dei dovevano sottomettersi al mio volere in quanto ero molto più forte e potente di loro. “Ricordati, inoltre, che il tuo destino e quello dei tuoi compagni, è nelle mie mani”, e così feci. Presi due di loro, li alzali al cielo e li catapultai a terra spappolando loro il cervello; quindi li divorai. Scese la notte e dormii. Il mattino seguente per colazione sbranai, come un leone sbrana la sua preda, altri due compagni dell’uomo al quale avevo ripetutamente chiesto il nome. Questi mi rispose alla fine: “Nessuno!”. Lasciai uscire nuovamente il gregge per il pascolo giornaliero facendo attenzione a richiudere l’entrata della grotta in modo da lasciare gli intrusi all’interno. L’aria era fresca e cristallina, il gregge pascolò liberamente tutta la giornata; la sera, mi incamminai nuovamente verso il mio antro. Rimasi stupito perché gli stranieri mi offrirono un vino tanto gustoso che ne bevvi una gran quantità, tanto da farmi cadere in un profondissimo sonno. Prima di addormentarmi tra un sogghigno ed un altro, gli dissi che il mio dono sarebbe stato quello di divorarlo per ultimo, quindi caddi nel sonno. Nel torpore del sonno provai un infernale dolore nel mio unico occhio, gli era stato conficcato all’interno una punta gigantesca ed infuocata che presi con ambo le mani e la scaraventai lontano. Mi fluiva il sangue lungo il volto e per le mani; accecato cercavo di prendere gli aggressori a tentoni, e con grandissima voce richiamai gli altri ciclopi che accorsero chiedendomi cosa fosse mai successo. Con urla feroci dissi che Nessuno mi aveva accecato, loro, però, non capendo il mio problema, si allontanarono. Cercai nuovamente con le mani ma non riuscii a sentirli. Riaprii la spelonca. Toccai il mio gregge e sentii sotto le mani solo la folta lana. Mi resi conto, però, che il montone, che solitamente usciva per primo, quel giorno era invece l’ultimo a lasciare la grotta. Pensai che anche lui fosse triste per la mia situazione e accarezzandolo lo lasciai uscire. Di Nessuno e i suoi compagni più nessuna traccia.

Syria

sabato 17 dicembre 2011

NICOLAS E IL PRESEPE PARLANTE di Alessia D.D

Grazie ad Alessia D. D. che condivide con noi il suo tema natalizio :)
 
 In un tempo lontano esisteva un bambino di nome Nicolas  che era molto dispettoso e cattivo. Lo chiamavano"Il perfido Nicolas". Aveva 12 anni. Il padre e la madre non riuscivano a tenerlo fermo un secondo. Si stava avvicinando il Natale e Nicolas preparava il materiale per l'albero e il presepe. Un bel giorno, uscito da scuola, decise di addobbare tutta la casa in anticipo. La mamma, anche  per tenerlo a bada, accettò. L'albero era favoloso, blu e argento, con, sulla punta, una stella cometa enorme di colore oro. Il presepe era tutto addobbato con lucine bianche, c'era l'acqua che scorreva e un'atmosfera di luce e felicità. Il padre, rientrato dal lavoro molto tardi, sentì delle vocine nella direzione del presepe. Pensò che fosse suo figlio Nicolas; andò a vedere e stava già dormendo. Si avvicinò al presepe. Erano proprio i personaggi che parlavano e compivano le azioni!!!  La mattina seguente si svegliarono e tutti sentirono quelle voci provenienti dal presepe. Nicolas andò lì vicino e improvvisamente si stupì: fece un sorriso e pensò al Natale e alla felicità di ogni famiglia. Ma soprattutto alla sua!!! Così si accorsero che avevano un presepe in casa con cui si poteva comunicare e giocare e un albero favoloso. Nicolas era diventato gentile e buono e tutta la famiglia fu felice e contenta per il suo cambiamento.

venerdì 14 ottobre 2011

La santità di Jobs e il bisogno di credere...

Qualche giorno fa veniva a mancare Steve Jobs, fondatore e "numero 1" del colosso informatico statunitense, la Apple.

In men che non si dica il popolo del web si è scatenato: blog di ogni lingua pubblicavano a ripetizione post su Jobs, su FB si leggeva ogni sorta di messaggi di commiato, ringraziamenti, commoventi addii, esaltazioni del personaggio, delle sue massime, dei suoi interventi, apprezzamenti sulla sua visione della vita e della morte, dell'amore e della malattia (alcuni stralci, tra l'altro, apprezzati anche dal sottoscritto).

Molti utenti dei principali social network hanno sostituito le loro foto con quelle del compianto Steve, hanno eliminato, magari, la loro immagine sorridente per sostituirla con la mela mozzicata "made in Cupertino".

Ora, sul ricordo di un defunto nessuno si permette di eccepire alcunché; sul rispetto della morte, di qualsiasi essere umano sia, men che meno. Qualcosa potremmo dire, invece, su questa celebrazione mediatica del personaggio, su questo corale inno alla santità, alla genialità, all'ineccepibilità del personaggio in questione.

Personaggio, proprio così, non persona. La persona era quella che viveva tra le mura domestiche, che la mattina andava al lavoro, che espletava i suoi bisogni fisiologici e che mangiava in sala da pranzo con moglie e figli; quella che si innervosiva, che commetteva errori, che licenziava per causa ingiusta i dipendenti Apple mentre saliva in ascensore (negli USA questo è molto più facile di quanto non si creda). La persona era l'universo del suo mondo interiore e delle relazioni - più o meno intense - che intesseva con le altre persone.

Il personaggio, invece, è ciò che lui - o chi per lui - ha creato sulla sua persona, è l'artificio di leggende, scoop, aneddoti, che si sovrappongono alla persona reale. Il personaggio - di qualsiasi personaggio si parli - è un artefatto creato a misura per gli utenti, è un essere sfrondato di buona parte della sua personalità e ricreato, esagerato, soltanto in alcuni aspetti del suo essere. Il personaggio è un prodotto mediatico creato su misura, che presenta caratteristiche specifiche, mai casuali, studiate e organizzate.

Il popolo di internet e tutte le persone che in qualche modo hanno osannato Steve Jobs - perché effettivamente di questo si tratta - non hanno fatto altro che celebrare il personaggio che era stato costruito con abile maestrìa per loro; meglio ancora per IL LORO BISOGNO.

Di quale bisogno si tratta?

Il bisogno di credere, il bisogno di avere un modello da seguire, un esempio da imitare e da cui avere sicurezza.

Jobs è il mito del momento, l'idolo delle folle per l'anno 2011: per ora è lui che sazia il nostro bisogno di credere e fino ad ora ci basta. Domani sarà la volta di un politico, di Obama magari, di un attore, di un pilota della Formaula 1, del nuovo Maradona, di qualcuno che diventi l'oggetto del nostro bisogno di credere. Lo ripeto ancora: bisogno di credere.
 
Jobs era l'esempio di perfezione comunicativa, il creatore di icone vincenti, con i colori azzeccati. Jobs metteva in commercio prodotti di nicchia, con il prezzo doppio rispetto a quelli della stessa fetta di mercato (chi scrive, tra l'altro, non li disprezza di certo e usa un Mac Book Pro della Apple). Era colui che avrebbe venduto frigoriferi al Polo Nord, che ha iniziato in un garage. Il mito del Garage, il mito del self - made man.

Ma Jobs ci ha cambiato la vita! Il mondo non è più lo stesso dopo i suoi prodotti, ha rivoluzionato il mondo dell'informatica! 

Si sentono dire spesso queste frasi. Ammettiamo anche che abbia cambiato la vita, ma a chi? Mia nonna vive meglio grazie a Jobs? I ragazzi che a 14 anni vanno in cantiere a lavorare vivono meglio grazie a Jobs e ai suoi iPhone? 

Credo di no, e quando sarà il momento di passsare a miglior vita Jobs sarà l'ultimo pensiero che ci verrà mente e l' iPhone resterà sul comodino di chi lo possiede.

Se qualcosa ci cambia la vita non vuol dire affatto che ce la migliora. La Apple non ci aiuterà a sorridere, non ci aiuterà ad accogliere il prossimo, ad amare le nostre donne e i nostri figli.  La Apple non risponderà alle domande fondamentali della nostra vita e Steve Jobs non sazierà (e non ha saziato) la nostra sete di senso e di autenticità.

La libertà che dà gioia si sperimenta nell'Amore e a Jobs, di tutto ciò, non interessava nulla. 

Non possiamo far tacere il nostro bisogno di credere, il nostro bisogno di una sorgente di calore sovrasensibile; andrebbe contro la natura dell'uomo.

Possiamo invece indirizzare il nostro bisogno verso esempi veri, significativi, che fanno dell'Amore il loro senso, il loro motore, la loro ragione di vita. 

I modelli che meritano di essere ricordati e nominati sono coloro che hanno fatto dell'Amore la loro ragione di vita, che perseguono la vera felicità dell'uomo, che provano a dare risposte al grido di senso di ognuno di noi.

Caro popolo di internet, spiacente ma Jobs non era nulla di tutto questo. 

Cari internauti, cosa vi siete ridotti a fare?


Avete celebrato un personaggio simbolo del "capitalismo tecnocratico" (S. Zecchi) contro cui vi scagliate nelle vostre manifestazioni, nei cortei degli indignados, nelle sfilate dei No-Global o del popolo viola.

Avete celebrato, insieme a Jobs, quello stesso capitalismo da cui dite di essere sopraffatti; avete osannato la stessa finanza spietata che mette in ginocchio l'economia reale e contro cui protestate e inveite.

Insieme a Steve Jobs avete benedetto, incensato, quello stesso marketing che permette a tutta la classe politica di abbindolare le persone.

La vostra credibilità e la vostra lungimiranza sono davvero superiori alle persone che criticate?







 




giovedì 6 ottobre 2011

Steve Jobs: curiosità sulla vita di un genio

Scarsa igiene personale

Secondo alcune fonti indiscrete Steve Jobs non curava molto la propria igiene personale. Mentre lavorava presso Atari, è stato spostato nel turno di notte a causa della scarsa igiene personale e dell’odore terribile che emanava certi giorni.

Dipendente 0

Tutti i dipendenti di Apple hanno in loro possesso un nome e un numero che contraddistingue ogni dipendente. Il numero corrisponde all’ordine in cui i dipendenti sono stati assunti. Steve Wozniak, co-fondatore di Apple, è il dipendente N. 1. A Steve Jobs, invece, era stato assegnato il n. 2, ma grazie alle sue continue proteste riuscì a conquistare la posizione di dipendente n. 0.

Abiti Casual

A Steve Jobs piaceva molto vestirsi in modo comodo e pratico senza badare al proprio aspetto (come del resto anche all'igiene). La sua ‘uniforme quotidiana’ era composta da una maglia in cashmere o di seta nera a collo alto, dei jeans della Levi’s (ne possiedeva più di 100) e scarpe da ginnastica New Balance.

Dislessico

Steve Jobs era dislessico come molti altri personaggi illusti. Albert Einstein, Henry Ford e Alexander Graham Bell sono alcuni degli altri scienziati e imprenditori famosi con il problema della dislessia. Ulteriore riprova che la dislessia, considerato un DSA (disturbo specifico dell'apprendimento), non ha nulla a che vedere con l'intelligenza dell'individuo.

 Ricchezza

Steve Jobs è arrivando a ricoprire la 136° posizione della classifica dei miliardari del mondo 2010 redatta da Forbes. Il suo patrimonio consta di circa 5,5 miliardi di dollari.

Il suo "stipendio"

Lo stipendio annuo che Steve Jobs riscuoteva dalla Apple in qualità di amministratore delegato era di 1 dollaro, mentre il reddito annuale calcolato in base alle azioni Disney corrispondeva a 48 milioni di dollari.

Vuoi vendere acqua zuccherata tutta la tua vita o vuoi cambiare il mondo?

Steve Jobs riuscì a convincere John Sculley a lasciare la PepsiCo e diventare CEO di Apple con una frase ormai celebre: ‘Vuoi vendere acqua zuccherata tutta la tua vita o vuoi cambiare il mondo?’. 

Il primo PC
Larry Lang, ingegnere presso la Hewlett Packard, ha mostrato a Steve Jobs il suo primo computer a 12 anni. Ne ha subito voluto uno per provarlo e ricordando il momento ha affermato ‘Ho solamente pensato che fossero macchinari molto ordinati. Desideravo provarlo per poter confermare le mie idee’.

A 22 anni il suo primo abito

Fu quando dovette presentarsi alla West Coast Computer Faire, all'età di 22 anni, che Steve Jobs acquistò il suo primo abito. Proprio per presentare il progetto Apple.

Una peste a scuola

Steve Jobs, come lui stesso racconta in un'intervista, portava serpenti e piccole bombe in classe durante l’orario scolastico. E' stato sospeso da scuola, per il suo comportamento, decine di volte.

martedì 7 dicembre 2010

Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita...

Mi è capitato di nuovo sotto gli occhi, per la prima volta dai tempi dell'università, un interessante articolo di Gaetano Salvemini.

Oltre ad essere geniale e scritto magistralmente, è un quadro della corruzione e del malcostume meridionali tuttora ATTUALISSIMO.

Fu pubblicato su "La Voce" di Prezzolini il 3 gennaio del 1909.

Gli adolescenti che dopo aver fatto il liceo in una città del Napoletano, lasciano la famiglia per andare ad addottorarsi all’Università di Napoli , sono forniti assai di rado di una perfetta e solida coscienza morale. Ma anche nei peggiori non mancano mai grandi capacità di bene. E basta che un giovane meridionale abbia la fortuna di trovarsi sbalzato fra i diciotto e i ventidue anni in un centro di lavoro onesto, in una scuola universitaria seria e sana, perché in lui – fornito quasi sempre di un’intuizione rapidissima, di un forte amor proprio, di facile adattabilità all’ambiente – di determini subito una grande crisi di rinnovamento e di epurazione. E da questa crisi nascono prodotti talvolta mirabili per raffinatezza e per forza, ma non mai inferiori a quella che è la media intellettuale e morale dei giovani del Settentrione.
La più parte dei Meridionali, invece va a finire a Napoli. E Napoli è la piaga del Mezzogiorno, come Roma è la piaga di tutta l’Italia.
Nelle città universitarie del Nord non mancano, certo, occasioni di sviarsi al giovane, sfuggito appena alla costrizione della famiglia e della scuola secondaria, e avido di bere a grandi sorsi la coppa della libertà. Ma una grande ondata di lavoro affannoso travolge tutto, compensa ogni male, purifica tutto. E il giovane si sente come soggiogato da un comando universale, perenne, che lo sospinge alla fatica e lo consiglia a farsi avanti, ad affermarsi conquistatore di quelle forme poderose di vita che lo dominano e lo affascinano. Napoli , invece, vasto centro di consumi e di attività improduttive, in cui una metà della popolazione campa borseggiando e truffando l’altra metà, sembra fatta a posta per incoraggiare alla poltroneria e per educare alla immoralità. Tutto è chiasso, tutto è dolce far niente, quando non è imbroglio è abilità. Dal lazzarone che si spidocchia al sole, all’alto magistrato, di cui tutti sottovoce dicono che vende le sentenze; dal questurino, che sfrutta le prostitute, al giornalista ricattatore che sfoggia sfacciato automobili e amanti; tutti sembra che consigli al giovane: «Arrangiati, che io m’arrangio, l’onestà e il lavoro sono buoni per gli sciocchi: godere è lo scopo della vita». Nessuna voce grida alla sua coscienza inquietata e vacillante: «Su via figliuolo: lavora per te e per gli altri; il lavoro è la gioia, il lavoro è la libertà».
Dopo qualche mese di tirocinio in quell’ambiente pestifero e infetto, la giovane speranza della giovane delinquenza meridionale ha scelta per sempre la sua strada. Non è più il ragazzone di facile contentatura, timido e impacciato d’una volta. È diventato un elegantone: si pettina e si veste in modo da stare fra il cinedo e il guappo. Si è emancipato da ogni principio morale. Fa la corte alla figlia della padrona di casa. Abbraccia la serva in cucina e la portinaia per le scale. Molto spesso si busca la sifilide. Non c’è denaro che gli basti. E tempesta per averne la mamma e le sorelle di lettere menzogne e minacciose: povere mamme, che si consumano nella lotta ineguale contro le ristrettezze del bilancio; povere sorelle, che sfioriscono nell’ombra nutrendosi di legumi e rattoppando calzerotti per il fratello lontano!
Qualche volta Cocò si ricorda di essere anche studente universitario: quando c’è da fare una chiassata. Cocò è quasi sempre anticlericale: quando viveva Giovanni Bovio, non mancava mai di andare ad ascoltarlo e di applaudirlo almeno una volta all’anno. Spesso Cocò è addirittura socialista rivoluzionario: è insuperabile nel rompere le vetrate, nel fracassare le panche, nel fare con la  bocca e con la mano suoni non perfettamente musicali. Cocò può essere rivoluzionario tanto più agevolmente, in quanto è sicuro a priori dell’impunità qualunque birbonata faccia: i carabinieri, che moschettano per dei nonnulla i contadini affamati, non daranno mai noia al caro figlio di papà. E Cocò è sicuro a tutte le ore di trovare all’Università qualche migliaio di mascalzoni simili a lui, pronti sempre a fare come lui i socialisti rivoluzionari. Oggi le panche saranno rotte per protestare contro il governo, domani per anticipare le vacanze, dopo le vacanze per ottenere una riduzione di tariffe sui trams e poi per conquistare gli esami di marzo, poi per solidarietà con i colleghi bocciati; e avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e la scure.
Di tanto in tanto lo spirito di Cocò è turbato dallo spettro degli esami. Ma solo alla morte non c’è rimedio! Una Università in cui 5000 alunni fanno ogni anno, nelle sole sessioni di estate e di autunno, senza contare quella abusiva di marzo, 17000 esami, non può cercare troppo il pelo nell’uovo in questo genere di operazioni. Eppoi parecchi professori ufficiali esercitano anche le libere docenze, inscrivendosi al loro corso libero, l’elegantone laureato si garantisce abbastanza bene contro i rischi di quegli esami che dipendono da quei professori. Altri professori ufficiali sono investiti di incarichi in materie non  obbligatorie, che apparirebbero inutili qualora non vi si scrivesse un numero sufficiente di volenterosi. Cocò si inscrive anche a questi corsi, e si assicura altri esami. Parecchi professori ufficiali, specialmente delle facoltà di giurisprudenza e medicina, sono avvocati o esercitano la professione, o fanno gli affaristi: è facile, quindi, trovare il magistrato, il banchiere, l’lettore influente, il cliente danaroso, il socio d’affari, che con una raccomandazione metta a posto qualche altro esame. Poi ci sono i professori indulgenti per natura, o vecchi o rimbecilliti, che non bocciano mai, mai, mai. Non manca a Cocò che incontrare nell’Università di Napoli uno dei trecentocinquanta liberi docenti, imbroglione e pasticcione, camorrista e intrigante, che sa aiutare nei momenti difficili i poveri giovani bisognosi di soccorso. Basta dare la firma a uno di costoro, lasciandogli godere tutte le dodici lire e centesimi dell’indennità e non pretendendo il rimborso immediato il rimborso immediato di una parte delle dodici lire, come molti fanno, e la gratitudine e la protezione del libero docente è assicurata in tutte le commissioni d’esame, in cui egli farà parte.
Ed ecco come l’Università di Napoli sforna ogni anno circa 600 fra medici e avvocati e una sessantina fra professori di lettere e scienze, dei quali la più parte non è assolutamente capace di scrivere righe senza almeno errori di grammatica ed è intellettualmente abbrutita e moralmente disfatta. Questa vergogna non è peculiare all’Università di Napoli. Tutte le università italiane sono più o meno ammalate: ed in di corsi liberi, per es., gli abusi che si commettono dai professori ufficiali a Palermo, a Torino, a Padova, sono forse superiori a quelli di Napoli. Ma è innegabile che nell’insieme l’Università di Napoli è quella che accentra in sé il minor bene e il maggior male; che mentre nelle altre università prevalgono fra i professori ufficiali in proporzioni più o meno forti gli scienziati sugli affaristi, nell’Università di Napoli prevalgono gli affaristi sugli scienziati.
Cocò, analfabeta e laureato, si avvede ben presto di essere inetto a vincere un concorso per la magistratura i per le prefetture o per i ministeri, se è avvocato; è sistematicamente bocciato nei concorsi per le scuole medie, se professore; non ha nessun titolo di capacità per ottenere una condotta fuori del paese natio, se è medico. Se ne ritorna, dunque, sospirando alla casa paterna dove lo aspettano la mamma invecchiata e le sorelle avvizzite. E qui, impotente a vivere coi frutti della professione libera, privo com’è di una qualunque abilità tecnica, tenta di assicurarsi un reddito, anche minimo, con un impiego municipale. Dove il partito dominante è solido e potente, Cocò gli striscia umile ai piedi e gli chiede un tozzo di pane. Dove esiste un’opposizione abbastanza forte o la maggioranza non si affretta a riconoscere i meriti e i diritti del neolaureato, costui si mette all’opposizione e combatte la maggioranza nell’interesse della patria. E allora si vede Cocò, anticlericale fierissimo all’Università, iscriversi a una confraternita e tenere il baldacchino dietro al Vescovo nelle processioni; e l’ex-socialista rivoluzionario giocare la sera a terziglio col delegato, col maresciallo dei carabinieri, e chi applaudiva Giovanni Bovio falsifica le bollette del dazio consumo e ruba i denari della beneficenza.
L’azione politica degli spostati ha una grandissima importanza nella società moderna, perché costoro, non avendo nulla da fare, fanno per tutto il giorno della politica: sono giornalisti, libellisti, galoppini elettorali, conferenzieri, propagandisti. Fanno di tutto; e in grazia delle loro attività, si conquistano i primi posti nelle file dei partiti politici, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche. Per tal modo tutta la vita dei partiti si accentra in essi: e poiché le idee non girano per le strade sulle proprie gambe, ma si incarnano in uomini, si ha che le più belle idee, i più bei programmi di questo mondo, quando cadono nelle mani di quei miserabili, si riducono a pretesto per conquistare un impiego. E i partiti vanno in rovina; perché, conseguita la vittoria, la distribuzione degli impieghi è causa di ingiustizia contro gli impiegati antichi o di dissidi fra gli aspiranti, sempre più numerosi del bisogno; una prima ingiustizia indebolendo moralmente gli amministratori che l’hanno commessa, li dà mani e piedi legati in balia degli elementi peggiori del partito, che, minacciando scandali e e pronunciamenti, ricattano senza posa e senza freno i loro padroni e li obbligano a nuove ingiustizie o a nuove immoralità; gli impiegati maltrattati si inviperiscono, gli aspiranti delusi o passano al partito avversario, o restano nel partito a crear nuove scissioni e sospetti e recriminazioni. E così i partiti, che avevano riportato strepitose vittorie e sembravano depositari della più scrupolosa giustizia e padroni dell’avvenire, in pochi mesi si disgregano e precipitano nel fango.
È questa una malattia di tutti i partiti, a qualunque gradazione politica appartengano, e di tutti i comuni italiani, qualunque sia la razza che li popoli. E girando per l’Italia e vivendo a lungo in Romagna, in Lombardia, in Toscana, ho acquistato sotto questo, come sotto molti altri rispetti, una discreta stima per l’Italia… meridionale: tutto il mondo è paese; e anche i nordici sono discretamente sudici. Ma fra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale ci sono, a danno del Mezzogiorno, le seguenti differenze. 1. Nel Mezzogiorno le professioni libere offrono meno risorse che nel Settentrione, data la minore ricchezza del paese e i meno sviluppati bisogni civili della popolazione; 2. Nel Mezzogiorno i professionisti, e più specialmente gli avvocati, sono più assai numerosi che nel Nord, e quindi si riversa sugli impieghi comunali un maggior numero di spostati; e Cocò è costretto ad una concorrenza più feroce, e non ha modo di fare le cose per benino e di salvare le apparenze come fanno i suoi analoghi nell’Italia settentrionale; 3. Nel Nord la classe dei professionisti affamati costituisce soltanto uno fra gli elementi della vita politica ed amministrativa e deve coordinare e subordinare la propria azione a quella di altre classi che hanno peso politico: borghesia industriale e commerciale, proletariato industriale, proletariato rurale, professionisti competenti e non affamati; nel Mezzogiorno la borghesia capitalistica è poco sviluppata, il proletariato industriale è agli inizi, il proletariato rurale è escluso dal voto perché analfabeta, professionisti competenti e non affamati ce ne sono pochini assai. E così gli spostati – il cosiddetto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della classe politicamente attiva, sono ovunque i padroni del campo, saccheggiano senza limiti e senza freno i bilanci comunali; e si possono dare anche il lusso di dividersi in partiti, secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o dall’opposizione. E li spese di tutto questo lavoro le fanno sempre, alla chiusura dei registri i contadini.
E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante politico di una delle due camorre di professionisti affamati [maggioranza e opposizione], che si contendono il potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste nell’impetrare l’acquiescienza della prefettura, della magistratura, della questura, alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia al governo in tutte le votazioni per appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia. Con questa differenza: che le province settentrionali presidiate da una borghesia non indegna della sua funzione politica e sociale, e forti di una vigorosa vita autonoma, reagiscono contro l’infezione della Città Eterna, e bene o male fanno la loro strada. Nel Mezzogiorno la corruzione propinata dal governo centrale si accumula a quella che pullula nella vita locale, e tutto il paese si sprofonda in una fetida palude di anarchia intellettuale e morale e di volgarità.
E in tutto questo processo patologico una parte grandissima di responsabilità tocca ai professori dell’e Università di Napoli che sono venuti meno sì spesso al loro dovere di far servire l’Università a selezionare intellettualmente e moralmente senza debolezze e senza colpevoli pietà la borghesia meridionale; e hanno lasciato che essa funzionasse come una scuola superiore di mala vita, e contribuiscono così poderosamente a rendere impossibile nelle classi dirigenti del napoletano ogni iniziativa illuminata e benefica, a dissipare in esse ogni coscienza di dovere e di solidarietà sociale, a distruggere nel Mezzogiorno ogni capacità di vita locale energica e sana.
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sabato 4 dicembre 2010

Il Risorgimento combattuto... sotto le coperte!

Certamente il Risorgimento diede gloria ai nostri grandi patrioti e loro ne diedero all'Italia: Cavour, geniale stratega politico; Garibaldi, geniale stratega militare. E poi Vittorio Emanuele II (anche se preso per mano da Cavour) e Giuseppe Mazzini, quest'ultimo forse collocato immeritatamente nell'Olimpo dei grandi del nostro Risorgimento. Sta di fatto che volavano schioppettate e colpi di baionette, stragi e arresti, intrighi di palazzo e armistizi.
Ma il Risorgimento - pare strano - non si combatté solo così; si combatté - soprattutto si organizzò - sotto le lenzuola di sontuose camere da letto, in palazzi sfarzosi, tra nobili giovanotti aitanti e dame bellissime e spregiudicate. Una di queste era Virginia Oldoino, meglio conosciuta come Contessa di Castiglione, nonché cugina odiata di Cavour.  
Ma come andarono, in breve, le cose? Cavour era ossessionato dall'ordire trame per accaparrarsi potenti che appoggiassero la causa risorgimentale del Piemonte e le provava tutte. Sapeva di aver bisogno dell'aiuto di Napoleone III, imperatore di Francia, ma doveva accaparrarsene i favori. Ci provò in tanti modi: convinse Vittorio Emanule II a dare in sposa una sua figlia al nipote dell'Imperatore e trattò con quest'ultimo i famosi accordi di Plombiers. Ma come mai Napoleone III fu così accondiscendente? Certamente per motivi politici che non staimo qui a dire, ma anche a seguito di un piano, potremmo dire "a luci rosse", ordito dallo stesso Cavour: inviò la tanto odiata cugina, Virginia, in Francia, con un obiettivo ben preciso: infilarsi nel letto di Napoleone III, il quale da tempo non riceveva le attenzioni della moglie Eugenia, in dolce attesa. Virginia, donna bellissima e impavida, ci mise poco, ma proprio poco, ad entrare nelle grazie dell'Imperatore. Così, tra un appuntamento e l'altro sotto le coperte imperiali, gli sussurrava all'orecchio le ragioni del risorgimento piemontese e la "questione italiana". E come poteva il buon Napoleone III resistere? Così, tra i vari trattati e accordi di palazzo, si inseriva la procacità di Virginia Di Castiglione e anche a lei va riconosciuta una fetta di merito se, qualche tempo dopo, l'Italia si fece veramente.

Ma chi era in realtà questa donna? Prendiamo un breve ritratto che ne fa Mauro Chiabrando sul Corriere della Sera:

"Virginia non amò altri che se stessa, motivo per cui il figlio Giorgio, morto di vaiolo a Madrid nel 1879, la detestava cordialmente. Dagli uomini sapeva farsi adorare quanto odiare dalle donne, prima tra tutte la spagnola Eugenia Montijno, consorte di Napoleone. Dalla amata Spezia, appena sposata si trasferì a Torino alla corte di Vittorio Emanuele di Savoia e quindi a Parigi. Dopo un esordio memorabile alle Tuileries, alla sfolgorante ventenne bastò mezz’ora d’amore con l’Imperatore cinquantenne nella stanza azzurra del Castello di Compiègne per riuscire nella “delicata” missione di Stato che le era stata affidata. Era il gennaio del 1856. Napoleone la coprì di gioielli, tra cui una collana a cinque giri di perle e si favoleggiava di un appannaggio mensile di 50mila franchi".
E ancora, a proposito della sua "collezione" di amanti:

43 AMANTI E IL VOLTO VELATO - Caduto il Secondo Impero nel 1870, con abilità e scaltrezza continuò a tessere, tra Parigi e La Spezia, la rete delle sue amicizie influenti collezionando 43 amanti, 12 dei quali avuti contemporaneamente e sempre all’insaputa l’uno dell’altro. La venere incontrastata del bel mondo che aveva incantato per le toilette da favola, i gioielli, tra i fasti e i piaceri della mondanità, ebbe il solo grave torto di sopravvivere alla sua bellezza. Trascorse l’autunno della vita sola, nel terrore dell’indigenza, sopraffatta da cupa nevrastenia e senso di persecuzione. Dei ricordi ormai non sapeva che farsene: per non vedere la sua decadenza fisica si velava il volto, copriva gli specchi, usciva solo la notte, circondandosi di un’aura patetica di mistero. Ancora ricca, ma in crisi di liquidità, nel 1893 subì l’onta dello sfratto dal suo ammezzato di Place Vendôme occupato dal 1876.
Morì a Parigi il 28 novembre 1899 in un piccolo alloggio sopra il ristorante Voisin.  All’indomani del suo funerale, la polizia e Carlo Sforza per l’ambasciata italiana distrussero tutte le lettere e i documenti compromettenti riguardanti re, politici, papi e banchieri, da Napoleone III a Bismarck, Cavour, Pio IX, Rothschild. Ci restano i suoi diari. Avrebbe voluto tornare in Italia e farsi seppellire alla Spezia con i suoi gioielli (andarono invece a sconosciuti eredi con una fortuna stimata in due milioni di lire del tempo), la camicia da notte verde acqua di Compiègne e i suoi due pechinesi, Sanduga e Kasino, imbalsamati. Riposa invece, tra i grandi, al Père Lachaise.



domenica 28 novembre 2010

Ho trovato questa testimonianza in rete....

Ho trovato questa testimonianza in rete. Mi permetto di pubblicarla senza l'approvazione dell'autore (che non saprei come contattare). Se, però, ha pubblicato un suo pensiero su internet  è cosciente della "pubblicità" del suo pensiero. Alla sua schiettezza va tutta la mia approvazione.

Negli anni settanta, quando frequentavo la Falcoltà di Ingegneria Chimica all'Università di Napoli, sulle prime restavo in qualche modo preso dall'"istinto del gruppo" e sentivo forte la tentazione di aggregarmi agli "organizzatori" delle proteste studentesche; a quelli fighi, con la capacità di spacciare autentiche cazzate per verità ispirate da menti eccelse al solo scopo di soddisfare il proprio egocentrismo da figli di papà viziati in eterna vacanza-studio. Ad un certo punto pensai a mio padre, già cardiopatico per i danni della guerra e le preoccupazioni di dover mandare avanti la nostra famiglia, a mio zio che, per questo, si era fatto carico dei miei studi e mi chiesi; " ma io, da fuori-sede, mi metto a far comunella con questi qui?" Grazie a Dio mi sono brillantemente laureato e da allora non ho più smesso di odiare i furbetti figli di papà "de sinistra", gli sfaccendati di allora, attualmente cinquanta-sessantenni, infilati a calci in culo nella Pubblica Amministrazione, nelle Banche della Repubblica e nei mezzi di comunicazione, cioé in tutti i posti dove si parla molto e si lavora niente. Purtroppo non camperò abbastanza da vederli passare tutti a miglior vita....solo perché le nuove generazioni possano non esserne impestati.

Massimo
Riporto questa testimonianza, come si suol dire, "a titolo di cronaca". Ognuno ne pensi ciò che vuole.

venerdì 26 novembre 2010

Perché gli studenti non protestano per questo?

Nel testo che segue c'è uno spaccato dell'università italiana: dati preoccupanti, a tratti vergognosi. Una situazione che pare evidentemente insostenibile. Non ho mai visto però, nonostante ve ne fosse ragione, nessuno studente protestare. Non c'è stata traccia di manifestazioni di nessun tipo, né inchieste giornalistiche o trasmissioni televisive che ne parlassero con la dovuta attenzione. La verità è che l'università italiana è scadente, malfunzionante e baronale; sì, baronale, perché è diventata nel corso dei decenni una vera e propria CASTA, riservata a parentele egemoni e a nicchie di partito. Non parlo soltanto per essermi documentato ed aver letto in materia: parlo soprattutto per essere stato anche io tra i banchi dell'università. Ho visto con i miei occhi corsi di laurea e discipline di studio perfettamente inutili; ho visto docenti assegnare un 25 o un 30 a studenti che facevano "scena muta" (in altre parole: il docente non boccia per evitare che le 3 o 4 persone che seguono il suo corso lo abbandonino del tutto per paura dell'esame troppo severo). Ho visto docenti insultare dei loro colleghi di corso durante l'ora di lezione; ho visto - solo a ricordarlo mi si aggrovigliano le budella - una semplice etnologa (quindi, da lì a qualche mese, io e lei avremmo avuto lo stesso titolo di studio) insegnare una disciplina per la quale non aveva alcuna specializzazione, tanto che spesso, di fronte a domande intelligenti, si trovava nel più totale imbarazzo. Eppure insegnava lì perché era la moglie del segretario di corso di laurea, in ottimissimi rapporti con il Preside. 
Ricordo l'aula autogestita della mia facoltà con i poster di Stalin e Lenin (li considero senza dubbio dei criminali patentati); da lì una puzza (o profumo, a seconda dei gusti) di spinello che raggiungeva delle volte il piano superiore, insieme ad invettive contro i fascisti (eravamo nel 2004, non durante la Resistenza!). Ho visto ragazzi protestare senza aver letto neanche un rigo della riforma o legge o provvedimento contro cui protestavano. Lo so perchè lì c'ero. Rappresentanti degli studenti sulla trentina, o anche più, che protestavano per il DIRITTO ALLO STUDIO, ma non studiavano e trascorrevano giornate intere nei centri sociali o nei giardini dell'università a prendere il sole. Non  voglio generalizzare, ma di studenti di questa tipologia ce n'erano a iosa nella mia facoltà. E forse ce ne sono ancora. Iscritti in pseudo-corsi di laurea, con l'illusione che il mondo, o lo Stato o la società, gli debba qualcosa perché sono LAUREATI, dottori. Ma di che? Di discipline fantasma, create appositamente per trovare occupazioni a docenti con tonnellate di raccomandazioni. Il problema diventa anche l'occupazione: ma con una, chiamiamola così, specializzazione di cui non interessa niente a nessuno, per esempio in SCIENZA DEL FIORE E DEL VERDE, come si può pretendere una occupazione? In cosa? Non ha più speranza un buon giardiniere?     
Ma lasciamo la parola a fatti e dati. 

I CORSI DI LAUREA INUTILI (sono solo alcuni)


  1. Scienze del fiore e del verde
  2. Scienze dell'allevamento, igiene e benessere del cane e del gatto
  3. Interpretazione di conferenza o, più generico: Interpretazione
  4. Storia delle donne e di genere
  5. Scienze e turismo alpino
  6. Filosofia teoretica, morale, politica ed estetica
  7. Lingua, letteratura e cultura della Sardegna
  8. Teoria e prassi della traduzione
  9. Beni enogastronomici
  10. Antropologia ed epistemologia delle religioni


LE CIFRE SULL'UNIVERSITA' ITALIANA:

Nel corso degli ultimi anni gli atenei italiani hanno moltiplicato i corsi di laurea e, di conseguenza, le cattedre.
5.500 sono i corsi di laurea in Italia. Le università sono 90 con 330 sedi distaccate e 170 mila insegnamenti attivati. In media gli altri paesi europei ne hanno la metà. 37 sono i corsi di laurea con un solo studente. 323corsi di laurea non superano i 15 studenti iscritti. 20 sono le università italiane sull’orlo della crisi finanziaria. Negli ultimi 7 anni, però, sono stati banditi concorsi complessivamente per 13.232 posti da professore ordinario o associato, ma i promossi sono stati complessivamente 26.004. Nel 99,3 per cento dei casi sono stati promossi senza che ci fossero posti disponibili. Per coprire le nuove qualifiche i costi del personale sono aumentati di 300 milioni di euro.


ARTICOLO TRATTO DAL BLOG DI "PANORAMA"

Olio extravergine, Chianti classico, Vinsanto, Rosso toscano e grappa: roba di prima qualità quella con l’etichetta Villa Montepaldi. Prodotta con il sudore di esperti braccianti. E un po’ anche con quello di tutti noi. L’azienda agricola, difatti, è foraggiata con generosità dall’Università di Firenze, proprietaria di questi 40 ettari a San Casciano Val di Pesa, una ventina di chilometri dal capoluogo. Tenuta prestigiosa: fu degli Acciaoli, poi dei Medici, successivamente dei Corsini e infine dell’ateneo. Utilità? Discutibile: l’ultimo avvistamento di uno studente alla “fattoria dell’università “, come la chiamano vezzosamente i professori, risale a qualche anno fa. E l’azienda è in perenne perdita, nonostante i milioni di euro versati dall’ateneo. Che, tra un buon bicchiere di rosso e un crostino intinto in olio pregiato, ha un deficit di almeno una settantina di milioni di euro. Gorgo che rischia di raddoppiare nel 2010. Nella vicina Siena le cose non vanno diversamente, così come in molti atenei italiani. I bilanci in rosso nascondono spese ormai fuori controllo: troppi dipendenti, corsi di laurea di dubbia utilità, concorsi banditi senza sosta, sprechi che si perpetuano.

Mai come adesso l’università italiana sembra allo sfascio. I rettori lanciano furibondi allarmi, per scansare i tagli previsti dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. Gli studenti occupano le aule e sfilano per strada, protestando contro lo smantellamento del sistema pubblico. I conti però non tornano più. Come non sono tornati ad Antonio Brancasi, che a Firenze insegna diritto amministrativo. “Caro rettore”: cominciava così la lettera indirizzata al magnifico di Firenze, Augusto Martinelli. Missiva in cui il docente contestava le incongruenze dell’ultimo bilancio. Faceva le pulci Brancasi: dati statistici contraddittori, vendite di immobili fittizie, spese incomprensibili. Come quella di 1,2 milioni di euro per trasformare la solita Villa Montepaldi in un agriturismo. Investimento di cui si è persa memoria. L’ateneo adesso promette rigore.



A Firenze si spendono praticamente tutti i finanziamenti statali per pagare il personale. Lo fanno in tanti. Le economie devono partire da lì. Eppure quest’anno l’università, nonostante la voragine in cui è cascata, ha già bandito 43 concorsi per ricercatore. Ha eliminato il superfluo, almeno? Non sembrerebbe.

A guardare bene gli ultimi dati ministeriali, si scopre che ci sono decine di corsi con meno di 20 iscritti. Un indubitabile primato lo detiene però la laurea in scienza delle religioni: zero iscritti. Seguita a ruota da scienze pedagogiche, dove il volonteroso è uno solo. E dalla scuola per assistenti sociali, bazzicata da altri due stoici. Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss di Roma, è sferzante: “Classi con 20 studenti non potranno mai reggere economicamente: è una moltiplicazione di costi abnorme” dice. “Poi ci sono le sedi decentrate, centri di potere che servono solo a compiacere i politici locali. Il risultato è sconfortante: spese enormi, livello dei docenti modesto e studenti abituati a studiare sotto casa”. A Siena non sembrano essersi posti il problema.



Negli ultimi anni, mentre l’ateneo accumulava passivi, sono stati aperti tre nuovi poli: a Colle Val d’Elsa, San Giovanni Valdarno e Follonica, che si aggiungono alla sede di Grosseto. E a quella di Arezzo: qui brillano i corsi di laurea in storia dell’antichità (tre iscritti) e in società, culture e istituzioni d’Europa (sette allievi).

Del resto il vecchio rettore Piero Tosi, in carica fino al 2006, è uno che i centesimi non li ha mai guardati. “Una gestione che ha lasciato 160 milioni di debiti solo tra il 2002 e il 2005, anni in cui i bilanci sono stati chiaramente imbellettati” accusa Giovanni Grasso, professore di anatomia umana e storico antagonista di Tosi. “Hanno trasformato l’Università di Siena in un ente assistenziale ormai alla bancarotta”. Le cifre non sembrano dargli torto: i bilanci degli ultimi 6 anni totalizzano perdite per 130 milioni di euro. Periodo in cui il costo per il personale è aumentato costantemente, arrivando, tra docenti e amministrativi, a un dipendente ogni 3,9 studenti. Cosa si fa in situazioni del genere? Si taglia allo spasimo, ovvio. Eppure, nell’ultimo anno sono stati stabilizzati 300 amministrativi e sono stati banditi concorsi per 43 ricercatori. A Genova ne hanno assunti 34 di ricercatori, oltre a 17 professori. Peccato che l’anno scorso sia comparso un buco di 15 milioni di euro. La Corte dei conti sta indagando sulle cause. “È chiaro che molti atenei chiudono i bilanci solo con i più spericolati artifici ” attacca Roberto Perotti, economista della Bocconi e autore del libro L’università truccata. “Il disavanzo è sempre uguale a zero. Poi, a distanza di anni, vengono fuori i debiti”. Alla Sapienza il bilancio del 2007 è stato chiuso con 40 milioni di euro di deficit. L’ex rettore Renato Guarini, in carica fino al mese scorso, aveva dunque annunciato un “notevole contenimento della spesa per il personale”. Il proclama si è tradotto in una nuova infornata di cattedre: 186 solo quest’anno. Qualcuno obietterà: su tutto si può lesinare ma non sulla ricerca. Giusto.

Però solo in teoria, avverte Perotti: “La qualità dei professori in Italia è pessima, lavorano poco e guadagnano tanto. I concorsi sono una farsa che favorisce solo amici e parenti. Per molti avere il doppio degli insegnanti servirebbe solo a moltiplicare le tribù accademiche. D’altra parte, sono un errore anche i tagli indiscriminati del ministro Gelmini”. “Un colpo mortale a coloro che riescono, nonostante tutto, a fare ricerca di eccellenza” li ha definiti Ferdinando Di Iorio, rettore dell’Università dell’Aquila, in lizza per la candidatura a governatore abruzzese con la Sinistra arcobaleno. Il suo ateneo, però, dicono le statistiche, non riluce di virtù: spende il 95,5 dei finanziamenti statali per il personale e ha un disavanzo di 12 milioni di euro. Eppure non centellina: vanta un corso per infermieri ad Avezzano, un altro in economia del turismo a Sulmona e quello, più disgraziato, in ingegneria agroindustriale a Celano, con soli otto iscritti. I bilanci in rosso vengono fuori uno dopo l’altro. Alcuni rettori, sepolti dai debiti, invocano l’intervento dello Stato: “Si rischia una nuova Alitalia” ha detto il ministro Gelmini. Che a Panorama anticipa: “Non ci sarà alcun aiuto pubblico.

Gli atenei dovranno predisporre piani di rientro sui quali vigileremo. E la lotta agli sprechi diventerà prioritaria. L’università italiana è indifendibile e chi lo fa danneggia solo i ragazzi. Molti corsi di laurea servono solo a moltiplicare le cattedre: elimineremo quelli non necessari”. Proposito, in verità, già annunciato da molti suoi predecessori e mai messo in pratica. Le novità, invece, riguardano soprattutto i bilanci: “A partire dal prossimo anno dovranno essere come quelli delle aziende. Bisogna evitare che siano compilati in modo creativo, cosa che è avvenuta spesso. Saranno poi certificati da società esterne, verificati da una commissione ministeriale e pubblicati su internet” dice il ministro, che ha deciso di inviare ispettori nelle università più a rischio. “Non è tollerabile che alcuni atenei interpretino l’autonomia in modo univoco: spendono senza controllo e sperano poi che arrivi qualcuno a ripianare i debiti”. Alla Federico II di Napoli il rettore, Guido Trombetti, ha recentemente annunciato di avercela fatta da solo: “L’ultimo bilancio è in perfetto pareggio” ha assicurato.

Il penultimo invece era in profondo rosso: 10 milioni di euro. Poi però è cominciata l’era del rigore, che si è tramutata in un aumento delle spese per il personale del 4,5 per cento. Risultato: l’università sborsa per i dipendenti più di quanto gli trasferisca lo Stato. Avanzano 11 milioni: le tasse pagate ogni anno dagli studenti. Ma per far funzionare il più elefantiaco ateneo del Meridione sembrano pochini. Invece bastano, addirittura avanzano, tanto da permettere di bandire quest’anno ben 37 concorsi per docenti e 54 per ricercatori. E ci sono pure i debiti del Policlinico: si aggirerebbero intorno a 20 milioni di euro. Anche al Policlinico dell’Università di Messina i conti non tornano da anni. Tanto che dal 2004 la Regione Siciliana non approva un bilancio. Il deficit è di 40 milioni di euro. Per metà dovrebbe essere ripianato dall’ateneo, che insiste a non mettere da parte 1 euro, anzi. Il sito dell’università annuncia le selezioni per 90 amministrativi. Per i sindacati, i requisiti sono troppo stringenti: sospettano che siano stati cuciti su misura per parenti e amici. Il rettore, Francesco Tomasello, nega sdegnato. E va avanti a bandire: 74 posti per docenti e ricercatori solo nel 2008. C’è carenza di personale a Messina?





Al contrario: per il ministero, solo nella facoltà di medicina ci sono 320 medici di troppo. Non insegnano né fanno ricerca, sono solo inutili, anche se vengono pagati lautamente, e la regione partecipa alle spese. Come accade all’Università di Enna, la Kore, quarto polo siciliano nato grazie all’attivismo del senatore del Partito democratico Mirello Crisafulli, leader elettorale della zona. Tutto privato, promisero i politici quando si trattò, nel 2004, di ottenere le dovute autorizzazioni. Lo Stato non ci metterà un soldo, ribadirono. Ma la regione sì: un contributo di 2 milioni l’anno. Poi c’è la provincia, con 800 mila euro.

Altri 400 mila arrivano dalle esangui casse dei comuni di uno dei territori più poveri d’Italia. “Quella che è privata è solo la gestione” insinua Massimo Greco, presidente del consiglio provinciale. “Il cda della fondazione, composto da cinque politici, tra cui Crisafulli, è stato congelato a vita”. E il consorzio universitario ha 14 membri: “Nominati con regole rigidissime” ironizza Greco. “Uno per partito”. Sistema che rischia di sfasciarsi a breve. L’Università di Catania ha fatto causa alla Kore chiedendo 20 milioni di euro: 16 per gli stipendi dei docenti mandati a insegnare a Enna. Sarebbe un colpo ferale per il piccolo ateneo siciliano. A meno che da Palermo arrivi un sostanzioso aiuto. È andata così all’Università della Basilicata. Nel 2005 è entrata in esercizio provvisorio: nelle casse non c’erano più soldi. Poi è intervenuta la regione: ha concesso 3 milioni di euro l’anno fino al 2007, saliti ora a 5. Qualche tempo dopo, a febbraio del 2008, il figliolo di un ex assessore della giunta lucana ha vinto un concorso da ricercatore nella nuova facoltà di economia. Fortuite coincidenze, per carità.



martedì 23 novembre 2010

Fazio - si ???

Lunedì sera, Rai 3. Giovedì sera, Rai 2 (solo per  citarne due). Triste constatare che la musica è la stessa, quasi identica. Un manipolo di giornalisti -  a giudizio di molti quelli giusti e bravi - fanno informazione libera, imparziale; in barba ad altri giornalisti filo-dittatoriali, conniventi con la mafia e con il potere. Penso che non sia affatto così. Penso che Fazio e tutta la troupe radical-chic abbiano perso un'altra occasione per fare un'informazione veramente libera, onesta; ancora una volta incapaci di mettere da parte i paraocchi, le ideologie incancrenite - condannate dalla storia - e la lotta politica. Preferiscono - mi spiace dirlo - l'illiberalità spacciata per buonismo e democrazia. Basta appropriarsi di uno spazio televisivo, magari a suon di "vaffan..bicchieri" e mobilitazioni sindacali, e il gioco è fatto. Dopo di che la trasmissione  diventa proprietà privata, intoccabile, un bunker inespugnabile. Un palazzo in cui chi entra è accuratamente selezionato, le parole e le presenze scelte con cura; le idee e i comici pure, e gli argomenti opportunamente modellati. Questa è informazione? E' giornalismo? No, ne sono sicuro: questa è lotta politica, è campagna elettorale permanente, è indottrinamento di chi guarda, quasi violenza mediatica.
Soltanto qualche esempio sulla puntata di ieri, poi ai telespettatori e pensatori liberi "l'ardua sentenza": ci sono moltissimi attori sulla scena italiana, ma lì da Fazio parla soltanto Zingaretti, ex militante del PC, fratello del Presidente della provincia di Roma in quota centrosinistra. Sull'aborto, in Italia e nel mondo, non la pensano tutti come Emma Bonino (per fotuna), però nella trasmissione di Fazio può parlare solo lei, agguerrita radicale - Emma per gli amici - senza contraddittorio, senza che si insinui alcun dubbio in chi ascolta: è così e basta, tutto il mondo deve essere d'accordo. Veronesi, oncologo di fama mondiale in quota PD, è favorevole al nucleare, tanto che presiede la commissione che ne gestirà la diffusione in Italia; tuttavia nella trasmissione di Fazio parla soltanto Renzo Piano, certamente un architetto celeberrimo, che però del nucleare non ne vuole proprio sapere. Basta? In trasmissione intervengono i clandestini che a Brescia hanno protestato per giorni su una gru, ma dei poliziotti su cui hanno pisciato in testa neppure l'ombra; neppure un cittadino bresciano interpellato. (Tra l'altro, la prossima volta, per chidere giustizia su un torto subìto, mi arrampicherò sul campanile di Frosinone, preparate le telecamere!!!).
Poi interviene il sindacato: ce ne sono tre in Italia che vanno per la maggiore, la famosa triplice: CGIL, CISL e UIL (c'è anche l'UGL che sta prendendo piede, ma lasciamola stare). Ebbene? Da Fazio parla soltanto la CGIL. Degli altri sindacati neppure l'ombra. Guzzanti? 50 battute su Papa e Berlusconi e 4 o 5 suol centrosinistra. Ma almeno ha fatto ridere con battute intelligentissime (che Vauro diventi invidioso?)! 
OBIEZIONE 1: su Rete 4 ed Emilio Fede come la mettiamo? Almeno se li paga il "Berlusca", mica Emilio Fede lo paghiamo con le tasse degli Italiani!
OBIEZIONE 2: e il TG 1? E Minzolini? Il TG 1 è sempre stato filogovernativo, è una novità? Oppure Piero Badaloni, Piero Marrazzo, Lilli Gruber, David Sassoli, tutti candidati con il centrosinistra, non hanno mai lavorato al TG 1? Sono stati epurati?

Poi c'è il buon Saviano, che ho gradito molto. Ammiro il suo coraggio, senza dubbio. Peccato che la volta scorsa insisteva su presunte - quanto cirscoscritte - infiltrazioni camorriste nella Lega e ieri, in trasmissione, dopo aver denunciato la collusione della camorra con la politica, dimentica che da 16 anni tutta la Campania (Regione, Provincia e Comune di Napoli) è amministrata da governi di centrosinistra. Ma forse è stata una distrazione. Non era distratto, però, quando ha riferito tutte le recenti promesse - fatue, è vero - del Presidente del Consiglio sui rifiuti di Napoli. Su Bassolino e la Iervolino, però, neppure un accenno. Il censore è soltanto Berlusconi? 
Certo, è chiaro: quando parlano Fazio, la Dandini, la Busi, Santoro, Travaglio, Lerner, Vauro, Report sono tutti liberi, puri, autentici, obiettivi e democratici. Vespa invece è un farabutto: eh sì, perché nei dibattiti mette le parti una di fronte all'altra in egual numero, e se capita li fa anche scannare tra loro!
La verità è che Vespa non piace perché non è, a differenza degli altri, sfacciatamente antiberlusconiano. Perché, diciamocelo chiaramente, se in politica non sei antiberlusconiano non capisci nulla. Vespa non deve inventarsi trasmissioni pilotate e faziose, o servizi messi su a regola d'arte, perché di fronte  ad un politico mette un altro politico, e le domande possono farsele tra loro.

In fondo, se la Repubblica parla di Noemi e della D'Addario sono inchieste, se Feltri parla di Boffo e delle sue molestie è "linciaggio mediatico"; quindi l'ordine dei giornalisti (cosa sia e a che serve devo ancora capirlo) gli impedisce di scrivere per tre mesi. In altre parole non può dire quello che pensa Ma questa non è censura, è solo giustizia, perché parliamo di giornalisti berlusconiani, di parte. Invece chi scrive per Repubblica e l'Unità è libero, di colore politico neutrale, non asservito ad alcun partito o corrente di pensiero. C'è chi dice sempre la verità e chi dice sempre menzogne. Ci sono i buoni, paladini della giustizia e della verità, tutti concentrati in un ramo del parlamento e tutti impiegati in una specifica testata giornalistica; gli altri sono tutti cattivi, mafiosi, ingiusti, dittatori e, guarda un po', sessualmente disordinati. Mi si passi l'ironia. Il Presidente del consiglio non può avere una vita sessualmente e affettivamente disordinata (come a tratti pare), sono d'accordissimo; ma Luxuria, parlamentare della Repubblica Italiana nel 2006 in quota Rifondazione, può liberamente affermare in una puntata di Porta a Porta di essersi prostituita all'università per pagarsi gli studi. Quindi, cari studenti, voi, che cercate di non gravare sulle finanze della vostra famiglia con le spese univeristarie, lasciate perdere di lavorare la sera, fino a  tardi, nei locali, nei bar, nelle pizzerie, oppure sui cantieri o con qualsiasi altra occupazione part-time, chi ve lo fa fare? E' molto più comodo prostituirsi per pagarsi gli studi. Che brava la nostra (o il nostro?) Luxuria! Invece di chiedere i soldi ai genitori si è costruita da sé, con il sudore della sua fronte, facendo sacrifici immani! In fondo lei non deve dare il buon esempio agli italiani, mica è il Presidente del Consiglio!
Oppure Achille Occhetto, segretario del Pc, qualche anno fa affermò liberamente di essere andato con le prostitute (era una puntata delle Iene andata in onda su Italia 1). Ma questo è normale per i guru del pensiero libero, è libertà sessuale, guai se i bacchettoni filocattolici osassero aprire bocca!  Non era mica il Presidente del Consiglio! Ma mi chiedo: se lo fosse diventato? Se a seguito di mosse parlamentari avessero creato un governo tecnico (eravamo ancora nella Prima Repubblica del resto!), la redazione di Repubblica avrebbe mai scandagliato la vita sessuale di Occhetto per ravvisarne simili immoralità! Per carità, mi viene da ridere solo a pensarlo! Quella è libertà allo stato puro, è la dimostrazione del falso mito della castità e della famiglia felice! Oppure Occhetto pensò: "Se divento Presidente del Consiglio inizio a fare il bravo ragazzo"? Continuo con l'ironia, che ora mi va a genio. 

Non hanno le stesse responsabilità e ruoli del Presidente del Consiglio, non lo nego, ma un valore morale e civile è tale in sé, non a seconda dell'importanza o della visibilità di chi lo disattende. E non possiamo farci caso a fasi alterne, quando ci conviene! Doppiopesismo? Penso di sì.

 Non è un tentativo di assolvere l'attuale Primo Ministro, il mio, beninteso. Non lo gradisco né lo preferisco. Per quanto mi riguarda il mio voto sta tutt'ora all'opposizione! Le mie sono valutazioni sulla forma, sui termini della questione, non certo sul merito. Un'intera corrente politica ed ideologica, con annessi giornalisti ed intellettuali - da sostenitrice del sesso libero, dell'emancipazione sessuale di omo ed eterosessuali - diventa improvvisamente puritana e bacchettona! Ditemi voi se poi Berlusconi non è capace di fare miracoli!

"Ma che c'entra: Berlusconi è un dittatore perché ha le televisioni! Il posto di Rete 4 toccava a Europa 7", sosterrebbe un verace radical-chic! E perché il buon ministro Gentiloni che era al governo nel 2006 non ha fatto nulla per togliere legalmente di mezzo Rete 4 e metterci, giustamente , Europa 7? E' un mistero insoluto.

domenica 26 settembre 2010

Un fantasma tipicamente ciociaro

Il fantasma di Fumone

Una delle vicende più spaventose legate al castello di Fumone, meravigliosa cittadina ciociara, narra della triste e macabra storia del “marchesino”, la quale risale XIX secolo. Ultimo fratello dopo sette sorelle, il piccolo Francesco Longhi, primo figlio maschio, avrebbe avuto in eredità tutti i beni di famiglia. La tradizione vuole che le perfide sorelle, invidiose e per nulla intenzionate a perdere le proprie ricchezze, decisero di eliminare l’odiato fratellino. L'omicidio fu lento e spietatao: lo uccisero giorno dopo giorno mettendo quotidianamente nella sua scodella minuscoli pezzetti di vetro. In breve tempo comparirono i primi dolori che divennero via via più atroci, sino a trasformarsi in una lenta e terrificante agonia: morì alla tenera età di cinque anni. La madre, allora, straziata dal dolore causato dalla perdita di quel figlio tanto atteso ed amato, ordinò, disperata e delirante, che le sue spoglie fossero imbalsamate con la cera e poste in una teca di cristallo, cosicché se ne potesse eternarne la memoria. E così è stato. Aperto lo sportello del mobiletto, l’impressionante salma viene offerta alla vista. Tuttora non è chiaro il metodo usato per la mummificazione: il dottore morì subito dopo il lavoro in circostanze oscure. Secondo una leggenda nota agli abitanti di Fumone, il Castello sarebbe infestato dal fantasma dell'inconsolabile madre, Emilia Caetani Longhi; sembra che ogni notte ella, con passo inquieto e riecheggiante, si rechi a trovare il figlioletto, lo prenda in braccio ed inizi a dondolarlo tra nenie e lamenti. Ma pare che anche lo stesso “marchesino” non abbia abbandonato il castello, e che il suo spirito dispettoso si diletti a nascondere o spostare piccoli oggetti. Inoltre, come se non bastasse, saltuariamente dai sotterranei si udirebbero le urla e i gemiti degli spettri dei prigionieri dei sotterranei, la cui anima, dopo la tormentata esperienza terrena, non trovò mai riposo.

Servizio del TG1

Castello di Fumone, panoramica

Gli Indicatori del Mistero, puntata di VOYAGER

giovedì 23 settembre 2010

Risposta A David Sassoli, con affetto.

Inutile ribadire in questa sede la mia stima per Lei (David Sassoli). Tuttavia mi vengono delle considerazioni da fare, premettendo di non sentirmi né xenofobo né populista e, forse, nemmeno ignorante. Il suo intervento, seppur corretto e impeccabile, mira a considerare e valutare le scelte politiche di Italia e Francia rispetto ai rom, ma non presenta alcuna proposta di soluzione al problema. E' facile dire che Berlusconi e Sarkosy sbagliano, ma le soluzioni? LE VOSTRE SOLUZIONI? Prima di criticare - e per giunta senza alcuna alternativa - chiederei di vivere qualche giorno (basterebbe anche qualche ora) nei pressi dei campi rom, nei quartieri che ne sono a stretto contatto, nelle periferie piene di baracche. Lì non vivono i politici - men che meno quelli "di sinistra"- ma la povera gente, gli italiani dal reddito più basso; questo perché gli immobili nei pressi dei campi rom perdono di valore e i prezzi degli affitti crollano. Lì non vivrà mai un radical chic, ma la famiglia monoreddito, il cassintegrato. Lì, che Le piaccia o no, ci vivono solo i poveracci. E i rom, come diceva Cacciari (ormai ex sindaco di Venezia in quota PD) in un recente intervento, PER LORO CULTURA vivono in baracche fatiscenti, accontentandosi di elemosine ed espedienti vari, trascurando l'igiene personale e la cura dell'ambiente. Non ho mai visto una donna rom impegnarsi per trovare un lavoro serio, come badante, commessa, impiegata (certo, qualche rarità la troveremo!). Piuttosto ricordo le donne "zingare" chiedere in corteo le elemosine davanti alla facoltà di giurisprudenza di Tor vergata, nei pressi del centro commerciale "La Romanina". E penso ai bambini rom costretti "per cultura" ad elemosinare per le strade della città, con la copertura e l'assenso delle loro madri. A loro della scuola importa poco, è la loro CULTURA. Ma i bambini li teniamo fuori: per loro il discorso si fa più complesso, delicato.
Vede, non vorrei che la sinistra, o il centrosinistra, ricorresse ad un espediente che apparentemente contrasta il tanto vituperato populismo (o presunto tale ), ma che in concreto ne ricalca lo stile, le forme e gli effetti: IL BUONISMO. Convinta, per di più, che il buonismo sia di una levatura culturale superiore, di elite, appannaggio di pochi illuminati. Non sono un politologo, ma azzardo l'ipotesi secondo cui uno dei motivi che hanno portato il centrosinistra a perdere terreno (e a me dispiace) è stato proprio lo "sfatamento" del falso mito del buonismo da parte degli italiani; il fatto di averne riconosciuto il suo distacco con la realtà e il buonsenso. Interpelliamo la gente reale, quella che vive, respira e ama a ridosso dei campi rom. Sentiamo cosa dice, cosa pensa. Oppure voi politici, di destra e sinistra, andate a vivere da quelle parti, ogni giorno. OGNI GIORNO! Passeggiate per quei parchi (o in quello che ne resta), parcheggiate le vostre macchine tra quelle strade, fate giocare i vostri figli in quei piazzali! Ma questo non accadrà mai, perché i vostri figli studiano nelle MIGLIORI SCUOLE PRIVATE, e voi fate i ministri delle scuole dei poveracci; governate le scuole dei figli degli altri, perché lì i vostri rampolli non ce li manderete mai! I figli di Fioroni, Bertinotti, Santoro, Franceschini non dovranno mai integrarsi con i figli delle famiglie rom, semplicemente perché dove studiano non c'è nemmeno l'ombra dei bambini rom. Voglio vedere i vostri figli in prima linea nelle manifestazioni studentesche, nelle autogestioni e nelle occupazioni delle scuole!!! Voglio vedere i vostri figli in una classe con 10 immigrati (su 18 alunni) di 4 nazionalità diverse, dove si parlano lingue semitiche e orientali! Penso che sarà più facile vedere Berlusconi che impugna la bandiera con falce e mertello e canta "Bella ciao"!
Esiste il valore dell'accoglienza, che è sacrosanta; ma esistono anche i valori della convivenza civile, del rispetto della legalità, della tutela della natura e dell'ambiente; il valore del lavoro e dei diritti dell'infanzia. Perché proporre MALDESTRAMENTE il primo trascurando gli altri?
Con affetto e immutata stima.

martedì 21 settembre 2010

Profilo psicologico dei docenti

Un interessante libro di Bosworth, Haakenson e McCacken (1997) tratteggia alcune tipologie psicologico-comportamentali di insegnante. Eccole di seguito: 

AUTORITARIO
Pone molti limiti e regole alla vita di classe senza giustificarli agli allievi, intervenendo, se tali norme vengono trasgredite, con punizioni o richiedendo l'intervento sanzionatorio del Dirigente Scolastico. Svolge per lo più con toni calmi la lezione, non interrotto dai suoi allievi poiché non favorisce scambi verbali o discussioni. Non risulta, inoltre, particolarmente interessato alle motivazioni delle assenze dei propri alunni.

AUTOREVOLE


Pone regole ferme che motiva alla classe e contemporaneamente incoraggia l'autonomia; rimprovera fermamente ma con rispetto; tiene conto delle circostanze nella trasgressione delle norme e accetta una discussione critica; consente di essere interrotto per domande o commenti rilevanti; favorisce lo sviluppo di abilità comunicative.

SUPPORTIVO


Molto attento al benessere degli studenti, ma poco al controllo della classe: non imposta, infatti, un sistema di norme per la vita della classe, tollera atteggiamenti impulsivi e interviene poco per sanzionarli; si preoccupa di non urtare la sensibilità degli studenti e ha difficoltà a imporre il suo ruolo in classe.

PERMISSIVO

Non è coinvolto dalla vita della classe; pone poche domande agli allievi, risultando disinteressato; si impegna scarsamente sia nell'impostare e far rispettare le norme della vita della classe sia nel progettare e programmare attività; non dimostra iniziativa o creatività; inibisce la motivazione degli studenti, il loro coinvolgimento e il loro autocontrollo.